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martedì 24 novembre 2020

Prima di...

Tra le bozze di post del blog, dimenticato per oltre un anno, oggi ho trovato alcune mie considerazioni sintetiche sull'incontro tra Conte e Landini alle "Giornate del Lavoro" 2019.

Ho deciso di pubblicarlo comunque, perché ha il sapore del "prima di"...

Avete presente cosa intendo?

Lo scorso autunno, dopo la crisi di governo che portò alla nuova maggioranza M5S- PD e pose fine alla disastrosa alleanza M5S- Lega, gli argomenti di discussione nel mondo politico e sindacale erano proprio diversi da oggi.
Oggi abbiamo conosciuto la pandemia, la crisi economica che i fenomeni globali causano, l'impotenza davanti alla diffusione di malattie che non ricordavamo assolutamente e alcuni dei pensieri che facevamo sono irrimediabilmente cambiati, però, a pensarci bene...

Cosa ne è stato degli argomenti di allora? Sono risolti, superati oppure invece sono ancora reali e rimasti insoluti, aggravati semmai dal Covid 19 e dalla sua potenza di spazzare via gli ordini del giorno e gli impegni dalle nostre agende istituzionali e personali?

Ecco il post: mi scuso già per l'estrema sintesi e semplificazione di allora.


"Mi sono presa il tempo di ascoltare con attenzione il ‘colloquio’ Conte- Landini di domenica scorsa alle Giornate del Lavoro della Cgil. Ero curiosa, perché nella mia organizzazione l’entusiasmo per il nuovo Governo è palese, anche se non ne ho ben capito il motivo: cioè, capisco l’euforia di aver superato il pericolo Salvini, che però si è auto escluso per eccesso di arroganza, non certo perché è stato sconfitto, ma per il resto non posso essere convinta dalle promesse/ richieste di discontinuità allo stesso Presidente del Consiglio dei ‘decreti sicurezza’ o anche del ‘decreto dignità’...
Ecco perché ho ascoltato bene e se dovessi riassumere in modo sarcastico direi: Giuseppi Conte, uno di noi! 😬🤣
Senza riassumere troppo invece, convenevoli, onori di casa e giusta accoglienza a parte (concordo che non si possa invitare il Presidente del Consiglio per insultarlo), mi hanno piuttosto stupita i contenuti emersi dai due colloquianti.
Le parole chiave ricorrenti in risposta a domande un po’ troppo "pettinate" per venire formulate dalla platea di lavoratori e lavoratrici vertevano per lo più sui concetti di ‘fare insieme’, ‘fare sistema’, ‘patto tra attori coinvolti’, ‘sistema Italia’, ‘sistema partecipativo’...

Semplificando molto ho notato che:
  • non sono stati mai citati i ‘decreti sicurezza’ (!) e i ‘decreti dignità’ o le politiche del lavoro, magari rispetto al dramma dei lavoratori precari, ma solo il tema previdenziale (quota 100) e assistenziale (reddito di cittadinanza);
  • le questioni salariali sono state legate ai contratti collettivi e alla misura della rappresentanza erga omnes, ma non alla ‘dialettica’ lavoratori/ aziende;
  •  la riduzione dell’orario di lavoro è stata citata a fine chiacchierata una sola volta;
  • la legge Fornero è stata citata anch’essa una volta sola per la necessità di revisione (Landini), mentre per Conte sono da confermare ‘opzione donna’, il Fondo Nazionale per i Giovani e le carriere discontinue e la gestione separata e ‘quota 100’ non è altro che un modo di salvaguardare chi è stato fregato dalla Fornero come gli esodati.
Lievissima critica traspare rispetto allo ‘sblocca cantieri’ connesso al tema della legalità e del rischio di infiltrazioni mafiose e all’autonomia differenziata rispetto ai dettati costituzionali di uguaglianza dei cittadini, mentre grande armonia e accordo ho notato nella lunga parte di chiacchierata su riduzione del cuneo fiscale, lotta all’evasione e condoni, che però si è svolta senza mai senza citare la flat tax.
Altri argomenti tabù le politiche industriali e le grandi opere, mentre sono state citate alcune crisi aziendali come Manital e Mercatone.
Su ambiente e movimento Fridays for Future inquietante secondo me la dichiarazione di Conte per cui il movimento non può stare in strada, ma deve entrare nei palazzi, per poi omettere però di citare Ilva o Fca rispetto alla mobilità sostenibile.
Infine su salute e sicurezza annunciato pomposamente il confronto tra parti sociali e Ministeri del Lavoro e della Salute per mettere freno all’emergenza morti sul lavoro, ma anche qui assenti le responsabilità dei datori di lavoro e la conflittualità nelle aziende anche su questo punto.

Ora, io capisco che non si possono maltrattare gli ospiti, ma il diritto di critica dov’è finito? Come si fa ad alimentare questo clima di fiducia nel dialogo con un Governo ‘nuovo’ fatto di persone e opinioni note e vecchie?
E perché il conflitto è sparito dall’agenda del mio sindacato a priori, senza nemmeno aver iniziato il confronto, ma al solo segnale che il confronto- unitario- ci sarà?

L’intero video è pervaso dalla convinzione ottimistica che finalmente tutto verrà risolto dal buon senso e dal lavoro insieme: è una mia impressione?

Sono molto preoccupata perché Conte non è uno di noi!"


lunedì 13 agosto 2018

XVIII Congresso Cgil: pausa estiva!

Come ho accennato in un post di qualche settimana fa, sono partite le assemblee sindacali in tutti i luoghi di lavoro per consultare le iscritte e gli iscritti della Cgil sul programma dei prossimi 4 anni: è il Congresso, baby!

A Torino per la nostra categoria le assemblee sono iniziate solo il 16 luglio e proseguite fino al 1 agosto, con una trentina di posti di lavoro finora consultati e parecchio ritardo nell'avvio della macchina congressuale. Insieme ad altre delegate e delegati come me sono stata impegnata a presentare in queste prime assemblee il documento Riconquistiamo Tutto, dell'area Sindacato è un'altra cosa, "volgarmente" detto il documento 2, che si pone lo scopo di proporre un deciso cambiamento rispetto alla linea seguita dalla Cgil nei 4 anni passati, soprattutto per un semplice motivo: la situazione per le lavoratrici e i lavoratori è peggiorata sempre di più, sia per quanto riguarda la protezione del salario e del potere d'acquisto (siamo più poveri, insomma), sia per la scomparsa di diritti base (siamo meno tutelati) dal Jobs Act in poi, quindi l'idea della continuità con quanto fatto finora non ha alcun senso, a meno che non ci vogliamo condannare da soli a rassegnazione e inefficacia.
Io non ne ho nessuna voglia, voi?

Fino al 20 agosto la consultazione è ferma per la pausa estiva, ma riprenderà per tutto il mese di settembre e fino al 5 ottobre in tutti i luoghi di lavoro.
Se ancora non avete avuto notizie dell'assemblea sindacale da voi e vi ho almeno incuriosito, fatemi un fischio, oppure chiedete subito al vostro delegato in azienda.

Ma adesso andiamo ai contenuti: nel post che ho già citato avevo iniziato a declinare in chiave "decathloniana" le 10 parole chiave del documento 2, continuo oggi con altre tre.

#orario
La flessibilità e il part time sono i nostri grandi problemi: si lavora poco (30 ore a settimana sono una chimera) e con esasperata variazione di orari giorno dopo giorno, domenica dopo domenica. Bisogna aprire una vertenza nazionale sugli orari di lavoro: non si lavora per divertimento o per riempitivo e nemmeno per sport, come teorizzavano i guru di Foodora...

#dignità
Riconquistare la tutela piena e universale dell'articolo 18 è una assoluta priorità: per i nuovi assunti a tutele crescenti, ma anche contro i licenziamenti per pseudo motivi economici. La raccolta firme per referendum e legge di iniziativa popolare della Cgil non ha funzionato, dobbiamo tornare a rivendicare la libertà dai ricatti e dalla discriminazione: sostituirsi alla politica o confidare nel nuovo Decreto Dignità (...) non vanno bene.

#salute&sicurezza&ambiente
Di lavoro si muore ogni giorno, sempre di più e quasi sempre per inadempienze da parte delle aziende, che cercano di recuperare produttività tagliando i costi della sicurezza: ecco perché sono omicidi sul lavoro!
Si deve tornare a protestare e pretendere sicurezza. E ve lo dico come primo RLS di nomina sindacale che la nostra azienda abbia mai avuto: si può e si deve fare!

Per questi e altri motivi al Congresso della Cgil, vota il documento 2!

#riconquistiamoTutto

martedì 26 giugno 2018

Il jobs act secondo loro

Dal mio rientro al lavoro dall'aspettativa a maggio scorso ho ritrovato quasi tutti i colleghi che avevo lasciato, a parte i non pochi che si sono dimessi per fare un altro lavoro, magari più vicino a percorso di studi e aspirazioni.
Di sicuro c'è stata una contrazione delle assunzioni e l'organico si è ridotto rispetto a qualche anno fa, ma ci sono stati comunque dei nuovi ingressi.

Così, come era intuibile, alcuni dei miei colleghi più giovani sono assunti col Jobs Act, cioè con le tutele crescenti e un articolo 18 meno efficace ed esteso che si guadagna con tre anni di buona condotta e ricattabilità. I nuovi assunti in tutta la contrattazione collettiva ormai stanno pagando il prezzo della sostenibilità del turn over, infatti sono stati bersaglio dal 2011 in poi nei CCNL del terziario di tagli a permessi e ROL (commercio e turismo) e comunque dell'aumento dell'orario di lavoro settimanale (distribuzione cooperativa), facendo così scendere il costo del lavoro e ottimizzare la produttività a scapito dei carichi di lavoro e delle condizioni di sicurezza. Questi interventi, uniti alle tutele crescenti dal 2015 (che francamente senza il doping degli sgravi alle aziende non hanno nemmeno alcun senso di esistere, se pure li si giudicasse positivamente), sembrano dire ai nostri colleghi più giovani: "Dovresti ancora ringraziare: ti assumo oggi che c'è ancora l'onda lunga della crisi economica globale, vorrai mica avere gli stessi diritti degli altri!"
Questa ratio in parte viene accolta con un sospiro di sollievo da chi è già in azienda, perché le controparti riescono anche a far passare il messaggio che mantenere il "benessere" di alcuni non possa non derivare da un piccolo sacrificio dei più giovani. La frattura tra generazioni di lavoratori è stata così rafforzata, senza tenere conto degli anni di precariato che tutti a tempo debito hanno dovuto subire prima di arrivare all'assunzione a tempo più o meno indeterminato.

Ora, chiacchierando con i miei "nuovi" colleghi in giro per il negozio e la sala pause, le opinioni che ascolto sono piuttosto interessanti, non so quanto rappresentative, ma comunque degne di attenzione da parte di una delegata sindacale: secondo alcuni, non sono un problema l'articolo 18 e le tutele crescenti, perché tutto sommato il clima attuale nella nostra azienda non è così grave (non credo invece che altrove in tutte le aziende si possa dire lo stesso), ma il problema è la precarietà precedente e posteriore a quel contratto che formalmente comunque è a tempo indeterminato: prima, perché come sempre i datori di lavoro mettono alla prova capacità, resa e fedeltà dei loro dipendenti con tutti i contratti a tempo determinato possibili e immaginabili; dopo eventualmente, perché il mercato del lavoro è fermo e immobile e non si trova molto se non occasioni uniche di stage e simili...
Insomma l'articolo 18 a detta di alcuni miei contatti (non renziani, lo giuro!) è davvero un feticcio, dal momento che oltre i diritti dovrebbe esserci la condizione di esigerli, cosa che invece i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese, soprattutto se giovani e formati non hanno.
Il part time, le pensioni che non ci saranno, l'incertezza di stare appesi al filo delle chiusure aziendali, il mercato del lavoro bloccato, questi sono i problemi a monte.
Contro le tutele crescenti l'unica cura sono la solidarietà e la contrattazione, anche attraverso il conflitto: quanti vecchi assunti sarebbero pronti a lottare per questo?
Se la vostra risposta è nessuno, allora hanno vinto loro, i padroni: ci hanno davvero diviso senza sforzi.

lunedì 25 giugno 2018

A proposito di Concetta Candido

Qualche mese fa sono riuscita finalmente a leggere il libro di Gad Lerner sulla storia di Concetta Iolanda Candido, che è tornata a casa qualche settimana fa dopo un ricovero di mesi nel sospiro di sollievo di una comunità intera, la stessa che lo scorso anno, nei giorni successivi al suo fatidico gesto allo sportello dell'Inps di Corso Giulio Cesare, l'aveva ignorata, sindacato compreso. Nella storia di Concetta ho trovato molto della mia esperienza quotidiana prima del rientro in azienda a maggio: Concetta è stata per anni una lavoratrice del settore multiservizi che anche io ho seguito in questi anni e il locale in cui lavorava è molto noto e applica il contratto collettivo dei pubblici esercizi, che anche ho avuto modo di seguire alla Filcams. Conosco il patronato, l'ufficio vertenze, i legali citati e tutto il contesto raccontato nel libro.
Sono rimasta molto colpita dal fatto che forse la tragedia di Concetta si sarebbe potuta evitare, se almeno una sigla sindacale avesse chiesto l'esame congiunto previsto dalla legge (l'articolo 47 della 428 del 1990), quando la sua azienda ha proceduto a riorganizzare la struttura col rientro in gestione diretta di gran parte dei dipendenti tranne il ramo pulizie, esplicitando la volontà di licenziare le 4 addette alle pulizie tra cui Concetta. Forse si sarebbe potuta contestare la procedura, chiedere che l'appaltatrice che ha poi preso in gestione il servizio di pulizie assumesse le lavoratrici già presenti, come è previsto dall'articolo 4 del contratto collettivo del multiservizi al cambio appalto, e in caso di rifiuto il sindacato avrebbe potuto chiudere con un mancato accordo e magari con una segnalazione all'Ispettorato del Lavoro.


Concetta Jolanda poteva essere una "mia iscritta", una delle delegate degli appalti che seguivo fino a pochi giorni fa, come Ada, Maria, Luciana, Mary, Stefania, Rosa e tutte le altre fantastiche donne che lavorano sodo per guadagnare troppo poco, ma fanno un lavoro essenziale di cui nessuno può fare a meno.
Poteva essere un'iscritta della Filcams a non aver ricevuto la Naspi in tempi decenti, perché la Naspi non è immediata, ha tempi lunghi e viene spesso rifiutata, non solo quando si è in malattia come Concetta, ma anche quando ci si dimette per giusta causa oppure quando si viene trasferiti.
Poteva essere un'iscritta della Filcams ad essere trasferita, esternalizzata, impoverita dai continui cambi di gestione e dai passaggi in cooperativa, fiaccata dalle condizioni salariali e materiali ai limiti della povertà: nel settore la media è di 15 ore a settimana di lavoro, con 3 ore al giorno per 5 giorni dalle 6 alle 9 del mattino o giù di lì, ma continui tagli delle ore negli anni, una paga oraria lorda di 7,21 € per livello e mansioni più diffuse e un contratto collettivo scaduto da 5 anni!
Concetta per me è diventata un simbolo al cui giudizio non riesco a sottrarmi: la sua fragilità è quella di un'intera porzione del mondo del lavoro, è la mia fragilità di lavoratrice part time della Grande Distribuzione.

Invece a Torino dopo il suo gesto estremo quasi con vergogna si è tirato avanti, perché l’understatement sabaudo non ama i gesti dimostrativi così disperati e tipici dei poveri del Sud del mondo (me li ricordo negli anni ‘80, quando ancora facevano notizia al TG1 delle 20 gli episodi di autoimmolazione col fuoco in Italia Meridionale, poi il nulla...), la città non ama ricordarsi delle periferie.
E la pietas? Non è sentimento signorile e nordico?
Lo slogan che usiamo tanto in questi mesi di tragedie dell'umanità e che condivido intimamente è restiamo umani (mi ricorda tanto quel classico homo sum, nihil humani mihi est alienum), ecco, oltre che uno slogan dovrebbe essere una prassi delle Organizzazioni al servizio delle donne e degli uomini e dei loro diritti: stare vicini agli esseri umani in questo momento storico è l'unico modo per tendere all'inclusione e all'estensione dei diritti e non solo alla conservazione dell’esistente.
Niente è peggio del professionismo senza sentimenti: quanti danni si fanno se si è persone e sindacalisti scadenti?

Forza Concetta!

sabato 2 giugno 2018

Generazione part time

Il negozio dove lavoro è aperto dal 1998 ed è stato uno dei primi del nostro marchio in Italia. Alcuni miei colleghi sono stati assunti da allora e quest'anno festeggiano i 20 anni di lavoro con Decathlon: a quei tempi venivano assunti addirittura commessi full time, cosa che già qualche anno dopo era impensabile perché la flessibilità del part time aveva conquistato tutti, nostro malgrado, e il massimo che si potesse ottenere per lavorare come addetto alla vendita erano le 24 e raramente le 30 ore settimanali. La quantità di lavoro, infatti, è stata sempre assoggettata a vari criteri aziendali come la crescita interna o la docilità, non certo al banale e oggettivo carico di lavoro e la sua distribuzione equa.
Nulla di nuovo sotto il sole, sono molte le aziende della GDO che si muovono su schemi simili, così come sono molte quelle che mostrano un atteggiamento collaborativo e friendly, ambienti dove tutti si danno del "tu" e possono fare dei feed back (critiche, commenti, contestazioni!) a tutti: capirai che democrazia!
Io che amo le parole ho sempre contestato i lessici aziendali, sin da quando ero delegata anni fa, poi come funzionaria della Cgil e infine come Segretaria della Filcams, non ho mai tollerato esuberanze e ipocrisie nelle parole di alcune "culture" e stili aziendali: per esempio non mi sono mai sentita una collaboratrice, ma una lavoratrice.

Ma tornando alla questione principale, come si vive un'esistenza con un lavoro part time? Come si fa a ottenere autonomia economica e progettare un futuro, oppure solo stare tranquilli?
Il tema non è soltanto caro alla grande distribuzione, dove comunque i minimi contrattuali sono sopra le 18 ore (salvo le aziende più piccole o le deroghe per gli studenti- lavoratori), ma coinvolge centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori nei settori del turismo e degli appalti (pulizie, custodia, vigilanza armata, mense aziendali...) e rappresenta un problema sociale rispetto al reddito prodotto, sempre troppo basso, ma anche al presente e  futuro previdenziale: come si sostiene il sistema pensionistico attuale con contribuzioni part time e precarie, magari a chiamata oppure in gestione separata o parautonoma? Che pensione avranno i lavoratori che oggi fanno un part time al di sotto del minimo contributivo, se dovranno maturare il requisito non in base alla loro retribuzione, come avveniva prima del 1993, ma proporzionalmente a quanto hanno versato all'Inps? Secondo alcuni calcoli verosimili l'assegno di pensione potrebbe essere di circa il 60% dello stipendio part time!
Non ci aspetta un futuro roseo... E le donne sono sicuramente messe peggio, intanto perché meno facilmente raggiungeranno avanzamenti di carriera, livello e paga e poi perché avranno molto probabilmente periodi di contribuzione figurativa legata alla maternità.

Ecco perché quasi tutti i miei colleghi hanno almeno un'altra attività, di solito di tipo autonomo o parasubordinato (impossibile conciliare un lavoro dipendente con le clausole elastiche e flessibili!) per provare a sbarcare il lunario e quadrare i loro conti: c'è chi si occupa di sport come allenatore, istruttore, personal trainer, maestro di sci; chi fa il fisioterapista, massaggiatore, osteopata; chi studia ancora; chi è architetto, educatore, baby sitter, etc etc.
Un mare magnum di lavoro, sacrifici, corse e tempi stretti: altro che choosy!
Le carriere discontinue e precarie sono un problema di un'intera generazione di 30/40enni, che hanno una scolarizzazione alta ma non possono nemmeno riscattare gli anni di studio a buon mercato: ci avrà pensato qualcuno?

I cosiddetti manager nella GDO non se la passano tanto meglio: di sicuro sono dei full time con dei livelli più alti di inquadramento, ma forfettizzano decine di ore mensili con responsabilità non dovute; inoltre fior di laureati in materie giuridico- economiche si ritrovano un'etichetta che parla di gestione aziendale, ma che per lo più sa di commerciale. Chissà se era quello che si aspettavano o se anche la loro corsa si è arrestata per i stessi bisogni dei loro colleghi venditori: la solidarietà non guasta mai e nemmeno la consapevolezza.

venerdì 25 maggio 2018

Diritto di sciopero

Scioperare è un diritto.

L'articolo 40 della nostra Costituzione prevede che il diritto di sciopero venga espresso secondo le leggi che lo regolamentano. Oltre a quanto previsto eventualmente dai contratti collettivi, la legge principale che determina l'incompatibilità tra diritto di sciopero e diritti altrui è la 146 del 1990, che stabilisce in quali casi un servizio pubblico essenziale non possa essere interrotto dall'agitazione collettiva per eccellenza. Questa legge ha lo scopo di tutelare e contemperare tutti i diritti in campo rispetto a quello di sciopero e riguarda ovviamente alcune tipologie di settori, stabilendo regole e limiti precisi alla proclamazione di scioperi e sanzioni alle sigle sindacali che non li rispettano: stiamo parlando di diritti prioritari come quello alla salute, all'istruzione, i motivi igienico sanitari, alcuni trasporti e la sicurezza aerea o autostradale, la pubblica sicurezza, la tutela del patrimonio artistico e culturale e così via. Infatti di solito sono coinvolti dalla definizione di servizio pubblico essenziale i siti ospedalieri, alcuni trasporti, alcuni servizi legati alle telecomunicazioni, i tribunali e gli altri servizi di pubblica utilità.

Insomma, tutto ciò che è lavoro nel settore privato e nel commercio non è affatto un servizio pubblico essenziale.

Nonostante questa semplice constatazione, negli anni sono aumentati gli attacchi portati al diritto di sciopero: ricordate la polemica mal riposta sul diritto di assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici del Colosseo a Roma? L'assemblea sindacale non è sciopero, ma si fece un clamore terribile e si decretò d'urgenza per limitare il diritto di sciopero nei settori dei beni culturali (fino ad allora era un servizio pubblico essenziale garantire conservazione e sicurezza dei beni culturali, non la loro fruibilità al pubblico).
Nei giorni scorsi è stata rivista la normativa per i trasporti, raddoppiando il periodo di garanzia tra uno sciopero e l'altro, mentre già pochi mesi prima era stata un'azienda del trasporto aereo low cost, Ryan Air, a gridare allo scandalo per l'agitazione sindacale e poi il primo sciopero italiano della compagnia.
Nella mia esperienza di funzionaria e segretaria nella Filcams non poche difficoltà si avevano con i servizi in appalto di enti pubblici e con la Commissione di Garanzia Sciopero, che però il più delle volte non avevano un bel nulla di essenziale: un conto è garantire le pulizie di un ufficio e un altro quelle di una sala operatoria di un ospedale...

Perché tutto questo astio verso il diritto di sciopero in Italia e invece tanta ammirazione da tastiera quando si parla degli scioperi francesi?
Siamo uno strano Paese: nel secondo dopoguerra abbiamo conquistato diritti sindacali e sul lavoro insperati, tanto che lo sciopero politico è praticato e ammesso da decenni (cosa non scontata, dopo gli anni di piombo e visto che in altri Paesi europei è espressamente vietato), e poi nel quotidiano ammiriamo certe prese di posizione contrarie alle agitazioni sindacali?
Lo sciopero è lo strumento principe della rivendicazione sindacale democratica, è lotta legittima e organizzata. Il sindacato non si può limitare a fare testimonianza e campagne di comunicazione, non è promotore di eventi o di informazione e cultura (non solo, insomma! A quello ci pensano già mille tecnici e consulenti che dovrebbero essere al servizio di fini superiori: non amo i tecnici, si sa!), dovrebbe essere soggetto di rappresentanza, denuncia e lotta per i diritti.

Cosa ci manca oggi nei posti di lavoro?

Quasi tutto... Lavoro sicuro e stabile, salario decente e contratto collettivo.
Pensiamoci ogni tanto: scioperare è un diritto.

lunedì 21 maggio 2018

Contratto a chiamata

Il contratto a chiamata, o job on call per gli appassionati anglofoni, o ancora lavoro intermittente per la normativa vigente, è quella forma di contratto atipico che ha fatto il suo ingresso nel mercato del lavoro del nostro Paese dalla Legge Biagi in poi, come le clausole elastiche e flessibili.
Nel commercio non è stato esplicitamente accolto dal contratto collettivo e per questo sono state giustamente molte le polemiche e i dubbi sulla legittimità del suo utilizzo nel nostro settore. Una delle aziende della GDO che ne fa uso smodato è di sicuro H&M, che come ricorderete lo scorso anno è stata protagonista della sua prima procedura di mobilità con scioperi e agitazioni in tutta Italia e pure a Torino.

Il contratto a chiamata è stato normato per la prima volta da un regio decreto del 1923 e veniva riservato ad alcuni settori residuali, includendo per esempio i commessi e le commesse dei negozi nel commercio ma nei soli centri abitati con meno di 25 mila abitanti, e stabilendo anche dei limiti di età precisi per i destinatari. La normativa successiva fino al jobs act ha definitivamente fissato i limiti di età dei possibili contraenti con quella tipologia (fino a 25 anni e oltre i 55) e le giornate di lavoro massime ammesse in un triennio, pari a 400.
In assenza di quei requisiti si deve trovare una forma contrattuale più congrua.
Il contratto a chiamata è molto utilizzato nel mondo del turismo, ma ha preso piede negli anni con alterne fortune anche in casa Decathlon...

Perché non ci piace?
  • Perché non garantisce ore di lavoro fisso e nessun conseguente reddito, né fisso né minimo, e nella maggior parte dei casi nessuna indennità di chiamata, diventando impossibile contare su quel tipo di lavoro che è però a tutti gli effetti un rapporto di lavoro attivo! Senza contare che per chi è a chiamata calcolare ferie, permessi, contributi, assegni familiari è un vero e proprio delirio da fare a consuntivo e non a preventivo...
  • Perché rende il lavoratore completamente in balia della chiamata del datore di lavoro, flessibilizzando la vita delle persone agli estremi e al punto che ormai è possibile attivare la chiamata anche via sms: uno svilimento del lavoratore!
  • Perché il lavoro richiesto nella maggior parte dei casi non è imprevedibile e flessibile come quel contratto, ma sarebbe programmabile e definibile con altri strumenti più decenti (contratto part time, per esempio): uno svilimento pure del lavoro!
Basta contratti a chiamata, contesteremo sempre la precarietà esasperata: vogliamo programmazione seria e organizzazione del lavoro: il sindacato fa questo! Quando il sindacato diventa collaborativo e si limita a ricevere comunicazioni dovute per legge e a monitorare i processi di iniziativa aziendale, non stiamo facendo un buon lavoro.
Il sindacato è rivendicazione, contrattazione, denuncia: i nuovi assunti sono già stati tartassati dal rinnovo del CCNL dal 2011 in poi (taglio dei permessi individuali per i primi 4 anni di assunzione), poi dalle tutele crescenti dal 2015, anche il contratto di lavoro intermittente mi pare troppo, no?

venerdì 18 maggio 2018

Videosorveglianza... Vantaggio o controllo?

Appena rientrata mi sono imbattuta nell'istallazione delle telecamere, fino ad oggi non presenti nel nostro negozio.

La mitica video sorveglianza è una materia vecchia, già regolamentata dall'articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, perché si sa che il controllo a distanza è un argomento molto caldo, allora come oggi... Gli impianti di videosorveglianza dovrebbero servire per preservare dai furti e/o danneggiamenti il patrimonio aziendale e dovrebbero avere una qualche utilità rispetto ai rischi sociali, per esempio come deterrente in caso della classica rapina in cassa, oppure in caso di denuncia dopo la rapina stessa.

Ma perché il controllo a distanza tradizionalmente non ci piace?


Innanzitutto perché spesso non è la soluzione a nessuno dei problemi che ho citato sopra: infatti molte volte non c'è alcun dato storico su rapine o aggressioni, ma le telecamere sono un investimento ormai ovvio, che viene dato quasi per scontato dalle aziende. Nel nostro caso dopo 20 anni di apertura non credo che la priorità sia preservare salute e sicurezza.
Lo scopo principale è di sicuro la tutela del patrimonio, anche se credo che maggior presenza e presidio umano in assistenza alla clientela, con maggior investimento sulle persone e i lavoratori, sulle loro competenze e capacità potrebbero dare risultati migliori della solita ricetta di produttività veloce delle aziende che punta tutto sul vecchissimo "tempi e metodi"... Ma tant'è.
Il controllo a distanza non ci piace perché troppe volte le informazioni fornite dalle videocamere (e da tutte le forme di controllo esistenti, dal GPS ai sistemi di rilevamento della posizione, etc) vengono utilizzate in modo inappropriato per avere notizie sui dipendenti che non è leale e legale avere...

Il Jobs Act ha modificato anche questa materia, aggiungendo tutti gli altri dispositivi introdotti dall'innovazione tecnologica che ai tempi della legge non erano previsti e lasciando un certo spazio di contestazione disciplinare su tutti gli strumenti aziendali dati in uso: vi invito a leggere cosa ne dicono le controparti a questo link, soprattutto il capitolo 6.
Per questo motivo non sottovaluterei tutti quei dispositivi che ormai si stanno diffondendo nell'uso quotidiano non solo nella logistica (aveva fatto giustamente rumore la vicenda del braccialetto elettronico di Amazon e poi di Leroy Merlin), ma anche i banalissimi smartphone con app varie che vengono ormai messi a disposizione in azienda per la gestione del lavoro quotidiano. Alcuni mi hanno fatto notare che gli smartphone individuali si vanno ad aggiungere all'inquinamento elettromagnetico già potenzialmente alto, a me invece preme di più capire se ci sono implicazioni diverse, come il controllo delle pause e degli orari, oppure della velocità di esecuzione di una mansione, oppure ancora in termini di quantità di incarichi e carichi di lavoro.

Insomma, essere smart è essere più controllabili?

mercoledì 16 maggio 2018

Clausole elastiche

La legge "Biagi" (approvata poi col Decreto Legislativo 276/ 2003) aveva introdotto  per la prima volta nella nostra legislazione le clausole elastiche e flessibili per i contratti part time.

Nato come contratto atipico (se al contrario quello tipico per definizione è il full time, anche se oggi ci sembra quasi incredibile scriverlo!) il part time per anni è stato considerato come un'occasione per conciliare tempi di vita e di lavoro e come tema esclusivamente delegato alle donne e alla contrattazione di genere. Per ottenere una maggiore tutela era previsto che gli orari venissero depositati presso gli Ispettorati del Lavoro e di fatto "bloccati" per impedire  abusi e precarietà: soprattutto la tutela dell'orario era considerata un diritto inviolabile che poteva permettere nel restante tempo di lavoro possibile di studiare, oppure di avere un'altra attività lavorativa, oppure ancora di prendersi cura dei carichi familiari.
Questo impianto di norme ha iniziato a essere intaccato nei primi anni 2000 dalle clausole elastiche e flessibili, con cui l'azienda con un'indennità di scarso rilievo economico poteva accaparrarsi la possibilità di variare gli orari di lavoro sia nella giornata sia nella settimana con un preavviso minimo di 48 ore. Chi aveva già allora un contratto part time aveva il diritto di sottoscrivere separatamente e dietro assistenza della rappresentanza sindacale le mitiche clausole, ma sappiamo benissimo che quasi nessuno,  soprattutto i primi tempi di applicazione della legge, ne ha avuto piena consapevolezza, come del resto chi se l'è trovate all'assunzione come me: bè, non è che potessi vantare molto potere contrattuale, o si firma oppure chissà se ti assumono...
Negli anni della crisi economica e della liberalizzazione più totale il part time non è più nè residuale nè voluto, ma viene imposto dalle aziende della grande distribuzione e del commercio per avere più flessibilità possibile (ce lo dicono continuamente che servono più teste che ore), oppure per parare alle riduzioni dei servizi al posto degli ammortizzatori sociali nel mondo appalti e non soltanto.

Le donne ne hanno fatto le spese in termini sia salariali sia contributivi... Come sempre!

Nel 2011 viene anche abolita la tutela del deposito degli orari e la variazione viene gestita in pieno per accordo tra le parti e nel 2012 la legge Fornero (la 92 del 2012) peggiora ulteriormente la condizione del part time. Unico dato positivo: si aggiunge un nuovo motivo per recedere dalla flessibilità e tornare all'orario fisso, inserendo i motivi di studio.
Il jobs act ha definitivamente riformato le clausole elastiche e flessibili, definendole ormai solo elastiche, ma intendendole come piene e compiute.

Che fare quindi?
Il contratto collettivo del commercio (che poi si chiama Terziario Distribuzione e Servizi, TDS) aveva già introdotto la normativa nel periodo 2004/2008, prevedendo la possibilità di recedere dalle clausole con "denuncia" scritta almeno 30 giorni prima per alcune motivazioni, tra cui i gravi motivi di salute e i carichi di famiglia (come da regolamento 278 del 2000 alla Legge 53 del 2000 sui congedi), con il ritorno all'orario inizialmente concordato in lettera di assunzione o nell'ultima variazione del contratto individuale.
10 € al mese di indennità valgono la flessibilità più esasperata? Vale la pena tornare a un orario fisso? Di sicuro la questione orari e conciliazione è il grande problema di tutti i part time della grande distribuzione, soprattutto voglio qui sfatare un grande inganno che ogni tanto sento declamare dalle aziende: la flessibilità non è uno strumento equamente in mano ai due contraenti, ma è solo in capo al datore di lavoro! Altrimenti dovreste dare voi i 10 € di indennità alla vostra azienda!
Questo argomento di solito viene usato per tranquillizzare i lavoratori su come verranno modificati gli orari in azienda, ma fino a che punto ci si può fidare? E se la vostra interfaccia cambia, gli equilibri saltano e vi restano solo la legge e il contratto? Allora sono cavoli amari, credetemi!

Solo la contrattazione integrativa potrebbe recuperare condizioni migliori: quando per Decathlon?


Modello di lettera di denuncia delle clausole elastiche

lunedì 14 maggio 2018

Solidarietà ai fattorini di Foodora

Quando si parla di gig economy e lavoretti ormai tutti pensano a loro, i riders di Foodora: un po' poco occuparsene solo come prova del disfacimento dei diritti e delle tutele, oppure come esempio della tirannia dell'algoritmo sulle persone. Sarebbe necessario conoscere chi lavora da Foodora e aziende simili e soprattutto provare a capirne esigenze e problemi, a maggior ragione se scarichiamo un'app e facciamo un ordine per la cena nel nostro quotidiano...

Molto preoccupante è la sentenza del tribunale del Lavoro di Torino dell'11 aprile scorso secondo cui i riders di Foodora sarebbero da considerarsi collaboratori autonomi e non lavoratori subordinati, come invece i 6 ex lavoratori torinesi hanno cercato giustamente di dimostrare. Secondo i giudici di primo grado quel tipo di lavoro viene gestito in autonomia dai fattorini con il proprio mezzo e non è accertato il potere di controllo e di subordinazione instaurato.
Di sicuro si tratta di un precedente molto pericoloso per tutte le lavoratrici e i lavoratori del Terziario 4.0 (che sono e saranno sempre di più, dalle piattaforme logistiche al cambiamento della distribuzione organizzata, che ormai prevede in ogni punto vendita un picking point per gli acquisti on line, ma a carico degli stessi dipendenti di ieri e di domani), in quanto la storia dei riders torinesi sembra mostrare chiaramente che questi lavoratori e lavoratrici, oltre a subire una costante pressione psicologica, sono totalmente assoggettati al datore di lavoro attraverso la app aziendale che controlla e gestisce spostamenti e “produttività”, inoltre indossano una divisa e sono sottoposti a rapporti gerarchici inequivocabili, come tutti i lavoratori subordinati.

Mi unisco perciò al coro di chi esprime la massima solidarietà e chiede che venga riconosciuto il rapporto di lavoro subordinato e di conseguenza il reintegro al lavoro di questi lavoratori e lavoratrici, ma in parallelo è necessario e urgente che ci si occupi del lavoro di tutti i dipendenti di Foodora: che possano lavorare in condizioni dignitose, del tutto diverse da quelle testimoniate, per esempio rispetto al compenso che ammonta a 2.70 € a consegna!
Una soluzione in questo senso secondo alcuni potrebbe arrivare dall'attività del sindacato internazionale: infatti di poche settimane fa è la costituzione del Comitato Azienda della Societas Europea del gruppo a cui appartiene anche Foodora, con sede a Berlino. L'accordo di costituzione del nuovo organo di livello sovranazionale prevede alcuni principi di partecipazione attiva dei lavoratori al controllo delle aziende e il diritto all'informazione sulle dinamiche aziendali e sulle procedure, ma non viene assegnato nessun potere e ruolo nella contrattazione di condizioni minime rispetto a salario, orari, etc che invece restano competenze nazionali.
Di sicuro è un inizio di relazioni, ma può incidere sulla realtà attuale? E come?

Al momento solo la partecipazione diretta con l'iscrizione al sindacato sembrerebbe una strada percorribile verso il miglioramento della condizione esistente... Ma a quale sindacato se il lavoro è autonomo? E soprattutto: come non farsi "disattivare" nel frattempo come successo ai 6 torinesi ricorsi in giudizio?
Bisogna rispondere a queste domande prima di parlare di algoritmo, altrimenti è solo incomprensione e solitudine.

giovedì 10 maggio 2018

Disciplina delle mansioni...

Anni fa, prima di lasciare il mio negozio per l'aspettativa sindacale alla Filcams parlavamo a Gruli 224 di introdurre la multicompetenza: preistoria rispetto a oggi!
A quei tempi, fine 2013, i venditori nei reparti coprivano le casse solo su volontarietà ed era stato smantellato il vecchio reparto 'cassa e accoglienza' per rivedere l'organizzazione dei servizi con la suddivisione di tutti nei reparti: in quei mesi il grosso dei servizi in cassa lo facevano le lavoratrici ex cassiere, così come gli scarichi li facevano in prevalenza i venditori nei reparti, come pure il  perma flussi e i "turni" in reception rimanevano in capo a chi già li faceva per consuetudine prima della riorganizzazione. A quei tempi la multicompetenza non ci piaceva, perché toglieva professionalità ed esponeva tutti a tutti i rischi, con una logica opposta alla legge.
Oggi, al mio ritorno in negozio, il processo di passaggio alla multicompetenza (fuori dal mondo Decathlon si chiama fungibilità di mansioni ed è uno dei valori aggiunti che nelle crisi aziendali si richiede ai lavoratori in modo da impattare meno per esempio in caso di ricorso agli ammortizzatori sociali, secondo la logica per cui se so fare una sola cosa e quella viene ridotta per mancanza di richiesta della mia competenza, potrei avere qualche problema nel rientrare nel ciclo produttivo...) si sono aggiunte a rotazione tra i servizi la reception, le casse automatiche, le cabine prova, oltre agli scarichi e le mille 'missioni' di gestione e controllo con cui il negozio tira avanti ottimizzando parecchio le risorse.
Mi hanno raccontato che l'organigramma si è snellito, perché esistono meno mansioni e livelli presenti in negozio fisicamente, che anche l'amministratore delegato è uno specialista sportivo e si trova fisicamente in un negozio; poi che finalmente (secondo loro) anche la nostra azienda è passata al modello della open door policy per la gestione delle risorse umane, senza intermediazione e con la collaborazione di tutti.

Io devo ancora verificare se tutto questo è vero e se ho capito bene, ma di sicuro rispetto alla mia uscita temporanea da Grugliasco è successa una cosa: il Jobs Act è intervenuto anche sulla disciplina delle mansioni, rendendo tutto più difficile e con demansionamenti più facili... Rispetto invece alle mansioni superiori è sempre vigente il concetto di mansione prevalente: ma in tutto il turbillon delle mansioni dello sport advisor, come la riconosceremo?

martedì 8 maggio 2018

Lavoro domenicale

Nel post sul lavoro festivo ho citato Pasqua e il lavoro domenicale.
A che punto siamo quindi con le domeniche lavorative?

Il notissimo "Salva Italia" ha definitivamente sdoganato nostro malgrado il lavoro domenicale, che fino al 2011 era regolamentato dalle Leggi "Bersani" (ricordate? prevedevano le domeniche natalizie, la giornata del Santo Patrono e poco altro) e da norme regionali e locali di concertazione e rotazione delle domeniche di apertura, oltre alla definizione di deroghe per motivi turistici o altro.
Insomma per chi non lavorava nel commercio qualche anno fa, proprio un altro mondo rispetto a oggi! A quei tempi le aziende difficilmente inserivano nelle lettere di assunzione indicazioni specifiche sul lavoro domenicale, salvo qualcuna particolarmente "zelante" e avanti coi tempi che si garantiva l'obbligo alla prestazione domenicale da contratto... Normalmente (per esempio il mio contratto individuale di fine 2006) si parlava di settimana lavorativa da lunedì a sabato per part time e full time, lasciando così la piena volontarietà al lavoro domenicale.

Dal 2011, però, per legge si sono di fatto introdotte delle variazioni alla settimana lavorativa che non sono state ignorate dalla contrattazione e dalle aziende (è dal contratto collettivo del commercio del 2008 che si discute di lavoro domenicale e di come evitarlo, con due contratti separati non sottoscritti dalla Filcams...) e ad oggi è vigente l'articolo 141 del CCNL del Terziario del 2015 che prevede un obbligo della prestazione domenicale per i soli full time che non abbiano l'obbligo del lavoro domenicale da lettera di assunzione o sue variazioni e integrazioni con dei limiti massimi (circa due domeniche al mese di media) e degli esoneri specifici (madri di bambini sotto i 3 anni, motivi di salute gravi, etc).
E i part time? I part time come sempre seguono la propria divisione oraria contrattuale, quindi deve essere esplicitamente citata la domenica tra i giorni lavorativi.

E le clausole elastiche? Ne parliamo nel prossimo post!

Quasi tutte le aziende (serie) promuovono un calendario di domeniche lavorative in modo da organizzarsi per tempo; se siete part time e non avete l'obbligo del lavoro domenicale, potete decidere se lavorare o meno e se con prestazione supplementare (lo straordinario per i part time) oppure no: nel vostro negozio non succede?
Parlate col vostro delegato sindacale! Subito!

Ottenere un’organizzazione del lavoro che limiti per tutti il disagio del lavoro domenicale (perché se si ha una qualunque vita sociale, è un disagio, diciamolo!) dovrebbe essere una priorità, soprattutto per chi ha l’obbligo da contratto non certo per suo volere e scelta: inclusione nella contrattazione di chi ne è fuori per le condizioni individuali ed equità sono i risultati che il sindacato dovrebbe ottenere, se non addirittura giustizia.

lunedì 7 maggio 2018

Una buona notizia ogni tanto...

Siamo tutti tristemente abituati alle cattive notizie ormai, soprattutto rispetto ai diritti nei posti di lavoro e soprattutto dopo il Jobs Act.


Di pochi mesi fa, per esempio, è il licenziamento di una lavoratrice di Ikea, Marika, che per oggettive difficoltà a conciliare orari di lavoro impossibili e necessità familiari importanti (madre singola con due bambini di cui uno disabile) si era assentata secondo l'azienda senza motivo (!): in primo grado purtroppo nessuna giustizia per lei...


Da Pordenone invece arrivano notizie confortanti: il 4 maggio scorso è stato stabilito il reintegro pieno di un RSU della Fiom alla Electrolux, Augustin Breda, licenziato perché secondo l'azienda mentre era in permesso 104 non stava assistendo davvero il familiare per cui godeva di quei permessi previsti dalla legge, dopo avergli messo un investigatore privato a seguirlo.
La sentenza dispone il pieno reintegro e il riconoscimento del danno (cioè il pagamento di tutti gli stipendi mensili dal licenziamento in poi), ma stabilisce anche che la 104 non è un diritto a disposizione delle aziende e che certi mezzucci contro i delegati sindacali scomodi non pagano.



Auguri al compagno Breda per il suo giusto rientro in azienda: siamo tutti con te!







domenica 6 maggio 2018

Lavoro festivo: proviamo a fare chiarezza

Nell'ultimo mese sono state parecchie le festività da calendario che si sono susseguite: la domenica di Pasqua, Pasquetta, 25 aprile e 1 maggio...

Il lavoro nei giorni festivi dal Salva Italia di Monti in poi è diventata una triste abitudine per tutti noi, perché come sapete è lasciata totale libertà alle aziende nel decidere l'apertura oppure no e con quali orari.

I contratti individuali e i contratti collettivi, però, come si rapportano alla legge sulle liberalizzazioni?
Ogni anno, infatti, soprattutto per la festività di Pasqua (caso particolare perché è una festività religiosa non infrasettimanale che coincide sempre con domenica e non è citata esplicitamente dal nostro contratto collettivo tra le festività retribuite da riconoscere) si moltiplicano i dubbi e le domande, tipo:
Sono obbligato a lavorare? Se sono part time che succede? E se sono full time?

E poi: è giusto dichiarare lo sciopero in una giornata festiva ? Chi può scioperare e chi no?

Qualche piccolo chiarimento secondo me.

Domanda: sono obbligato a lavorare nei giorni festivi?
Risposta: assolutamente NO!

Il lavoro festivo, cioè quello prestato in coincidenza con aperture nei giorni festivi (come da articolo 142 del CCNL TDS Confcommercio: 1 gennaio, 6 gennaio, Pasquetta, 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1 novembre, 8 dicembre, 25 dicembre, 26 dicembre e santo patrono), non può mai essere imposto ai lavoratori. In pratica è sempre un diritto scegliere se lavorare oppure no.
I principi da rispettare sul lavoro festivo sono:

  • volontarietà per tutti i lavoratori, part time e full time, nel dare disponibilità a lavorare in un giorno festivo oppure no
  • nessun obbligo a lavorare, mai e per nessuno, né part time che dovrebbero avere un orario firmato da rispettare, né tanto meno full time: nessuna assenza ingiustificata può essere contestata in un giorno festivo se non mi presento al lavoro (sentenze di Cassazione n. 9176/1997, 16582/2015, 21209/2016 e 22481/2016)
  • in caso di generica “disponibilità al lavoro festivo” accettata e firmata nella lettera di assunzione comunque non esiste l'obbligo a lavorare nel giorno festivo se con comunicazione scritta comunico all'azienda che non sono disponibile a lavorare nelle giornate festive indicate sopra (sentenza di Cassazione n. 27948/2017)
  • nei giorni festivi quindi lo sciopero non servirebbe nemmeno, ma basta non essere disponibili. Dichiarare lo sciopero è un segnale politico e di solidarietà più che una necessità per liberare dall'obbligo lavorativo.
Questo vuol dire che il vostro responsabile deve sempre chiedervi per tempo se volete lavorare in uno dei festivi da contratto collettivo. Se non lo fa, rivolgetevi al vostro delegato sindacale oppure alla Filcams Cgil: conviene!

Domanda: a Pasqua invece potevo essere obbligato a lavorare?
Risposta: dipende...

Come si è detto sopra, Pasqua non è un festivo esplicitato come gli altri (il caro vecchio CCNL a suo tempo riteneva superfluo citare una festività coincidente con la domenica, visto che era normale riposare la domenica... Come cambiano i tempi!), quindi potrebbero essere obbligati a lavorare tutti i lavoratori che hanno l'obbligo alla prestazione domenicale da lettera di assunzione, sia part time sia full time, oppure i full time cui si applica l'articolo 141 sul lavoro domenicale. Ecco perché in questa giornata non basta l'invito all'astensione dal lavoro (servirebbero cause pilota in questo senso per estendere i diritti), ma serve la dichiarazione dello sciopero per poter evitare di lavorare nella giornata di Pasqua.

Sperando di aver chiarito meglio le idee, preparatevi con calma e serenità alla prossima festività: il 2 giugno!

Buon riposo a tutti!