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martedì 26 giugno 2018

Il jobs act secondo loro

Dal mio rientro al lavoro dall'aspettativa a maggio scorso ho ritrovato quasi tutti i colleghi che avevo lasciato, a parte i non pochi che si sono dimessi per fare un altro lavoro, magari più vicino a percorso di studi e aspirazioni.
Di sicuro c'è stata una contrazione delle assunzioni e l'organico si è ridotto rispetto a qualche anno fa, ma ci sono stati comunque dei nuovi ingressi.

Così, come era intuibile, alcuni dei miei colleghi più giovani sono assunti col Jobs Act, cioè con le tutele crescenti e un articolo 18 meno efficace ed esteso che si guadagna con tre anni di buona condotta e ricattabilità. I nuovi assunti in tutta la contrattazione collettiva ormai stanno pagando il prezzo della sostenibilità del turn over, infatti sono stati bersaglio dal 2011 in poi nei CCNL del terziario di tagli a permessi e ROL (commercio e turismo) e comunque dell'aumento dell'orario di lavoro settimanale (distribuzione cooperativa), facendo così scendere il costo del lavoro e ottimizzare la produttività a scapito dei carichi di lavoro e delle condizioni di sicurezza. Questi interventi, uniti alle tutele crescenti dal 2015 (che francamente senza il doping degli sgravi alle aziende non hanno nemmeno alcun senso di esistere, se pure li si giudicasse positivamente), sembrano dire ai nostri colleghi più giovani: "Dovresti ancora ringraziare: ti assumo oggi che c'è ancora l'onda lunga della crisi economica globale, vorrai mica avere gli stessi diritti degli altri!"
Questa ratio in parte viene accolta con un sospiro di sollievo da chi è già in azienda, perché le controparti riescono anche a far passare il messaggio che mantenere il "benessere" di alcuni non possa non derivare da un piccolo sacrificio dei più giovani. La frattura tra generazioni di lavoratori è stata così rafforzata, senza tenere conto degli anni di precariato che tutti a tempo debito hanno dovuto subire prima di arrivare all'assunzione a tempo più o meno indeterminato.

Ora, chiacchierando con i miei "nuovi" colleghi in giro per il negozio e la sala pause, le opinioni che ascolto sono piuttosto interessanti, non so quanto rappresentative, ma comunque degne di attenzione da parte di una delegata sindacale: secondo alcuni, non sono un problema l'articolo 18 e le tutele crescenti, perché tutto sommato il clima attuale nella nostra azienda non è così grave (non credo invece che altrove in tutte le aziende si possa dire lo stesso), ma il problema è la precarietà precedente e posteriore a quel contratto che formalmente comunque è a tempo indeterminato: prima, perché come sempre i datori di lavoro mettono alla prova capacità, resa e fedeltà dei loro dipendenti con tutti i contratti a tempo determinato possibili e immaginabili; dopo eventualmente, perché il mercato del lavoro è fermo e immobile e non si trova molto se non occasioni uniche di stage e simili...
Insomma l'articolo 18 a detta di alcuni miei contatti (non renziani, lo giuro!) è davvero un feticcio, dal momento che oltre i diritti dovrebbe esserci la condizione di esigerli, cosa che invece i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese, soprattutto se giovani e formati non hanno.
Il part time, le pensioni che non ci saranno, l'incertezza di stare appesi al filo delle chiusure aziendali, il mercato del lavoro bloccato, questi sono i problemi a monte.
Contro le tutele crescenti l'unica cura sono la solidarietà e la contrattazione, anche attraverso il conflitto: quanti vecchi assunti sarebbero pronti a lottare per questo?
Se la vostra risposta è nessuno, allora hanno vinto loro, i padroni: ci hanno davvero diviso senza sforzi.

mercoledì 16 maggio 2018

Clausole elastiche

La legge "Biagi" (approvata poi col Decreto Legislativo 276/ 2003) aveva introdotto  per la prima volta nella nostra legislazione le clausole elastiche e flessibili per i contratti part time.

Nato come contratto atipico (se al contrario quello tipico per definizione è il full time, anche se oggi ci sembra quasi incredibile scriverlo!) il part time per anni è stato considerato come un'occasione per conciliare tempi di vita e di lavoro e come tema esclusivamente delegato alle donne e alla contrattazione di genere. Per ottenere una maggiore tutela era previsto che gli orari venissero depositati presso gli Ispettorati del Lavoro e di fatto "bloccati" per impedire  abusi e precarietà: soprattutto la tutela dell'orario era considerata un diritto inviolabile che poteva permettere nel restante tempo di lavoro possibile di studiare, oppure di avere un'altra attività lavorativa, oppure ancora di prendersi cura dei carichi familiari.
Questo impianto di norme ha iniziato a essere intaccato nei primi anni 2000 dalle clausole elastiche e flessibili, con cui l'azienda con un'indennità di scarso rilievo economico poteva accaparrarsi la possibilità di variare gli orari di lavoro sia nella giornata sia nella settimana con un preavviso minimo di 48 ore. Chi aveva già allora un contratto part time aveva il diritto di sottoscrivere separatamente e dietro assistenza della rappresentanza sindacale le mitiche clausole, ma sappiamo benissimo che quasi nessuno,  soprattutto i primi tempi di applicazione della legge, ne ha avuto piena consapevolezza, come del resto chi se l'è trovate all'assunzione come me: bè, non è che potessi vantare molto potere contrattuale, o si firma oppure chissà se ti assumono...
Negli anni della crisi economica e della liberalizzazione più totale il part time non è più nè residuale nè voluto, ma viene imposto dalle aziende della grande distribuzione e del commercio per avere più flessibilità possibile (ce lo dicono continuamente che servono più teste che ore), oppure per parare alle riduzioni dei servizi al posto degli ammortizzatori sociali nel mondo appalti e non soltanto.

Le donne ne hanno fatto le spese in termini sia salariali sia contributivi... Come sempre!

Nel 2011 viene anche abolita la tutela del deposito degli orari e la variazione viene gestita in pieno per accordo tra le parti e nel 2012 la legge Fornero (la 92 del 2012) peggiora ulteriormente la condizione del part time. Unico dato positivo: si aggiunge un nuovo motivo per recedere dalla flessibilità e tornare all'orario fisso, inserendo i motivi di studio.
Il jobs act ha definitivamente riformato le clausole elastiche e flessibili, definendole ormai solo elastiche, ma intendendole come piene e compiute.

Che fare quindi?
Il contratto collettivo del commercio (che poi si chiama Terziario Distribuzione e Servizi, TDS) aveva già introdotto la normativa nel periodo 2004/2008, prevedendo la possibilità di recedere dalle clausole con "denuncia" scritta almeno 30 giorni prima per alcune motivazioni, tra cui i gravi motivi di salute e i carichi di famiglia (come da regolamento 278 del 2000 alla Legge 53 del 2000 sui congedi), con il ritorno all'orario inizialmente concordato in lettera di assunzione o nell'ultima variazione del contratto individuale.
10 € al mese di indennità valgono la flessibilità più esasperata? Vale la pena tornare a un orario fisso? Di sicuro la questione orari e conciliazione è il grande problema di tutti i part time della grande distribuzione, soprattutto voglio qui sfatare un grande inganno che ogni tanto sento declamare dalle aziende: la flessibilità non è uno strumento equamente in mano ai due contraenti, ma è solo in capo al datore di lavoro! Altrimenti dovreste dare voi i 10 € di indennità alla vostra azienda!
Questo argomento di solito viene usato per tranquillizzare i lavoratori su come verranno modificati gli orari in azienda, ma fino a che punto ci si può fidare? E se la vostra interfaccia cambia, gli equilibri saltano e vi restano solo la legge e il contratto? Allora sono cavoli amari, credetemi!

Solo la contrattazione integrativa potrebbe recuperare condizioni migliori: quando per Decathlon?


Modello di lettera di denuncia delle clausole elastiche