Dal mio rientro al lavoro dall'aspettativa a maggio scorso ho ritrovato quasi tutti i colleghi che avevo lasciato, a parte i non pochi che si sono dimessi per fare un altro lavoro, magari più vicino a percorso di studi e aspirazioni.
Di sicuro c'è stata una contrazione delle assunzioni e l'organico si è ridotto rispetto a qualche anno fa, ma ci sono stati comunque dei nuovi ingressi.
Così, come era intuibile, alcuni dei miei colleghi più giovani sono assunti col Jobs Act, cioè con le tutele crescenti e un articolo 18 meno efficace ed esteso che si guadagna con tre anni di buona condotta e ricattabilità. I nuovi assunti in tutta la contrattazione collettiva ormai stanno pagando il prezzo della sostenibilità del turn over, infatti sono stati bersaglio dal 2011 in poi nei CCNL del terziario di tagli a permessi e ROL (commercio e turismo) e comunque dell'aumento dell'orario di lavoro settimanale (distribuzione cooperativa), facendo così scendere il costo del lavoro e ottimizzare la produttività a scapito dei carichi di lavoro e delle condizioni di sicurezza. Questi interventi, uniti alle tutele crescenti dal 2015 (che francamente senza il doping degli sgravi alle aziende non hanno nemmeno alcun senso di esistere, se pure li si giudicasse positivamente), sembrano dire ai nostri colleghi più giovani: "Dovresti ancora ringraziare: ti assumo oggi che c'è ancora l'onda lunga della crisi economica globale, vorrai mica avere gli stessi diritti degli altri!"
Questa ratio in parte viene accolta con un sospiro di sollievo da chi è già in azienda, perché le controparti riescono anche a far passare il messaggio che mantenere il "benessere" di alcuni non possa non derivare da un piccolo sacrificio dei più giovani. La frattura tra generazioni di lavoratori è stata così rafforzata, senza tenere conto degli anni di precariato che tutti a tempo debito hanno dovuto subire prima di arrivare all'assunzione a tempo più o meno indeterminato.
Ora, chiacchierando con i miei "nuovi" colleghi in giro per il negozio e la sala pause, le opinioni che ascolto sono piuttosto interessanti, non so quanto rappresentative, ma comunque degne di attenzione da parte di una delegata sindacale: secondo alcuni, non sono un problema l'articolo 18 e le tutele crescenti, perché tutto sommato il clima attuale nella nostra azienda non è così grave (non credo invece che altrove in tutte le aziende si possa dire lo stesso), ma il problema è la precarietà precedente e posteriore a quel contratto che formalmente comunque è a tempo indeterminato: prima, perché come sempre i datori di lavoro mettono alla prova capacità, resa e fedeltà dei loro dipendenti con tutti i contratti a tempo determinato possibili e immaginabili; dopo eventualmente, perché il mercato del lavoro è fermo e immobile e non si trova molto se non occasioni uniche di stage e simili...
Insomma l'articolo 18 a detta di alcuni miei contatti (non renziani, lo giuro!) è davvero un feticcio, dal momento che oltre i diritti dovrebbe esserci la condizione di esigerli, cosa che invece i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese, soprattutto se giovani e formati non hanno.
Il part time, le pensioni che non ci saranno, l'incertezza di stare appesi al filo delle chiusure aziendali, il mercato del lavoro bloccato, questi sono i problemi a monte.
Contro le tutele crescenti l'unica cura sono la solidarietà e la contrattazione, anche attraverso il conflitto: quanti vecchi assunti sarebbero pronti a lottare per questo?
Se la vostra risposta è nessuno, allora hanno vinto loro, i padroni: ci hanno davvero diviso senza sforzi.
Di sicuro c'è stata una contrazione delle assunzioni e l'organico si è ridotto rispetto a qualche anno fa, ma ci sono stati comunque dei nuovi ingressi.
Così, come era intuibile, alcuni dei miei colleghi più giovani sono assunti col Jobs Act, cioè con le tutele crescenti e un articolo 18 meno efficace ed esteso che si guadagna con tre anni di buona condotta e ricattabilità. I nuovi assunti in tutta la contrattazione collettiva ormai stanno pagando il prezzo della sostenibilità del turn over, infatti sono stati bersaglio dal 2011 in poi nei CCNL del terziario di tagli a permessi e ROL (commercio e turismo) e comunque dell'aumento dell'orario di lavoro settimanale (distribuzione cooperativa), facendo così scendere il costo del lavoro e ottimizzare la produttività a scapito dei carichi di lavoro e delle condizioni di sicurezza. Questi interventi, uniti alle tutele crescenti dal 2015 (che francamente senza il doping degli sgravi alle aziende non hanno nemmeno alcun senso di esistere, se pure li si giudicasse positivamente), sembrano dire ai nostri colleghi più giovani: "Dovresti ancora ringraziare: ti assumo oggi che c'è ancora l'onda lunga della crisi economica globale, vorrai mica avere gli stessi diritti degli altri!"
Questa ratio in parte viene accolta con un sospiro di sollievo da chi è già in azienda, perché le controparti riescono anche a far passare il messaggio che mantenere il "benessere" di alcuni non possa non derivare da un piccolo sacrificio dei più giovani. La frattura tra generazioni di lavoratori è stata così rafforzata, senza tenere conto degli anni di precariato che tutti a tempo debito hanno dovuto subire prima di arrivare all'assunzione a tempo più o meno indeterminato.
Ora, chiacchierando con i miei "nuovi" colleghi in giro per il negozio e la sala pause, le opinioni che ascolto sono piuttosto interessanti, non so quanto rappresentative, ma comunque degne di attenzione da parte di una delegata sindacale: secondo alcuni, non sono un problema l'articolo 18 e le tutele crescenti, perché tutto sommato il clima attuale nella nostra azienda non è così grave (non credo invece che altrove in tutte le aziende si possa dire lo stesso), ma il problema è la precarietà precedente e posteriore a quel contratto che formalmente comunque è a tempo indeterminato: prima, perché come sempre i datori di lavoro mettono alla prova capacità, resa e fedeltà dei loro dipendenti con tutti i contratti a tempo determinato possibili e immaginabili; dopo eventualmente, perché il mercato del lavoro è fermo e immobile e non si trova molto se non occasioni uniche di stage e simili...
Insomma l'articolo 18 a detta di alcuni miei contatti (non renziani, lo giuro!) è davvero un feticcio, dal momento che oltre i diritti dovrebbe esserci la condizione di esigerli, cosa che invece i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese, soprattutto se giovani e formati non hanno.
Il part time, le pensioni che non ci saranno, l'incertezza di stare appesi al filo delle chiusure aziendali, il mercato del lavoro bloccato, questi sono i problemi a monte.
Contro le tutele crescenti l'unica cura sono la solidarietà e la contrattazione, anche attraverso il conflitto: quanti vecchi assunti sarebbero pronti a lottare per questo?
Se la vostra risposta è nessuno, allora hanno vinto loro, i padroni: ci hanno davvero diviso senza sforzi.